storia 31, 27 agosto 2022
          by Gianfranco Lajolo

(leggi anche STAMPA SERA, edizione di lunedì 16 gennaio 1984)

Prima di tutto voglio ringraziare il buon Dio, perché, ripercorrendo col cuore e con la memoria gli anni vissuti in Barriera e al Michele Rua coi ragazzi sbandati e tanto bisognosi d’amore, mi ha sempre protetto, custodito e difeso e sono ancora stupito stupido per le meraviglie che ha operato in tanti di loro, meraviglie che solo Lui può inventare.

Arrivai al Michele Rua nel settembre 1979. Superato il primo momento di incertezza, rimasi colpito dai tanti gruppetti di ragazzi sparsi lungo le strade vicine all’Oratorio. Raggruppati intorno ai loro motorini d’improvviso sparivano per poi tornare poco dopo con la refurtiva (di solito erano gli sterei rubati nelle macchine) e se ne stavano oziosi tutto il giorno. Le liti tra loro erano frequenti e i più deboli venivano sovrastati dai prepotenti. Alcuni di loro avevano già fatto l’esperienza del carcere, o al Ferrante Aporti o alle Nuove (era il carcere di Torino, prima che venisse costruito quello attuale delle Vallette). Non potevo non pensare con tanto affetto e gratitudine al nostro caro Don Bosco!

Nacque in me un forte desiderio di andare da loro per diventare loro amico. Sentivo che questo desiderio non veniva da me, ma dal Signore. Intuivo che la mia vita di prete salesiano avrebbe potuto prendere una piega nuova, mai pensata prima. E allora mi misi in ginocchio davanti all’Eucarestia, affinché il Signore mi indicasse la via da seguire e chiesi consiglio al mio Superiore e ad alcuni miei Confratelli. E mi venne dato il permesso di uscire dalla struttura del Michele Rua e di vivere sulla strada, accanto a questi ragazzi. Ripensando agli inizi di quel sogno, desidero ringraziare i vari Superiori, i vari Direttori e Parroci e quei Confratelli che mi sono stati vicini, sostenendomi e incoraggiandomi. Quando al termine della giornata trascorsa in carcere o sulla strada, facevo ritorno nella mia stanza al Michele Rua, qualcuno di loro era lì ad aspettarmi e a me sembrava di ritornare a casa.

Trascorrendo le giornate con questi ragazzi, mi resi conto che tanti non avevano la terza media, perché già prima avevano abbandonato la scuola. Era troppo importante offrire loro la possibilità di riprendere in mano i libri. Nel 1981 mi venne incontro Valter Gerbi, un amico del Michele Rua. Con molta competenza e con molto impegno organizzò una scuola serale in un ex negozio di via Brandizzo. Contattò i presidi di alcune scuole, dove i nostri ragazzi diedero l’esame di licenza media.

Le lezioni erano svolte da amiche ed amici del Michele Rua nel segno dell’amicizia e della totale gratuità. Fu un’esperienza dura, ma molto positiva, perché aprì orizzonti nuovi a questi ragazzi. Questa scuola durò fino al 1986.

Nel frattempo organizzavo dei tornei di calcio, per offrire loro un interesse nuovo. Tante erano le squadre, tanto era l’entusiasmo perché questa volta erano loro i protagonisti; tanta era la paura di episodi di violenza, che a volte si sono verificati. Grazie a quei tornei ho potuto stringere nuove amicizie, che il tempo non ha cancellato. Alcuni miei amici mi scrivevano così dal carcere: “Gianfranco, spero di uscire in tempo per fare il tuo torneo di calcio”.

I miei primi anni di strada con questi ragazzi sono stati particolarmente difficili, perché alcuni di loro non accettavano la mia presenza e avevano un fare minaccioso. La paura accompagnava la mia giornata, ma, grazie a Dio, non mi sono mai fatto condizionare da nessuno e ricevevo la forza di stare ancora di più accanto a loro. Erano ragazzi che si drogavano e che, commettevano vari reati; finivano tutti, chi prima, chi dopo, in carcere. Come potevo lasciarli soli in una cella del carcere? Come potevo non andare ai loro processi nelle varie aule del tribunale, quando, all’inizio dell’udienza, il loro sguardo teso e impaurito cercava il mio? Nel mio cuore risuonava la frase di Gesù:” Ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.

Per vent’anni sono andato a trovarli e porto nel mio cuore la forza, la tenerezza e l’accorata richiesta di aiuto nei loro abbracci. Terminata l’ora di colloquio, avrei voluto portarli via con me, verso la luce, per far sentire loro il tepore di un focolare acceso dentro casa. Mi resi conto che ormai eravamo diventati amici e fratelli. E alla sera, prima di andare a dormire, dicevo i loro nomi a Gesù, uno per uno. Per vent’anni ho avuto il dono di andare in carcere a trovare Gesù.

Nel 1985, grazie all’arrivo di Giovanna, che già seguiva i ragazzi sbandati di Porta Palazzo e andava a trovarli al Ferrante Aporti, abbiamo aperto la “chiesetta di legno” in via Perosi, in mezzo ad una fila impressionante di case popolari, dove si consumavano tanti drammi.

Lì arrivavano i ragazzi, ma soprattutto tanti genitori disperati a cercare aiuto e conforto per i loro figli che erano per strada, o in carcere, o malati di Aids.

Negli anni ‘80 e ‘90 parecchi morivano di Aids, una malattia che li rendeva intoccabili e quindi ancora più soli.  Andavamo a trovarli all’Amedeo di Savoia, ci stringevamo forte la mano e cercavamo di prepararli al grande definitivo incontro con la misericordia di Dio.

Non si sentivano più abbandonati, ma amati e abbiamo ricevuto delle grandi lezioni di vita.

Il buio se n’era andato, era ormai entrata in loro la luce di Dio.

Immersi in questa realtà di sofferenza e di speranza, chiedevamo sempre di più al buon Dio di donarci un cuore capace di molto ascolto, di grande rispetto e di silenzio per poter condividere la loro croce e l’attesa di una vita nuova. Gioivamo per ogni loro piccola conquista, come Gesù aveva gioito per il vaso di profumo spezzato gratuitamente, e intanto imparavamo a non giudicare nessuno, per paura di offendere il mistero presente in ogni donna in ogni uomo. Nel frattempo c’erano ragazzi che volevano cambiare la loro vita sbagliata e allora nel 1992 Giovanna e io abbiamo aperto la prima comunità di recupero a Ferrere d’asti, la seconda ad Alice Superiore, la terza a Chieri, la quarta a Pralormo e infine la casa del rientro di Dusino San Michele. In quelle comunità il Signore ha operato miracoli insperati nel cuore nella vita di questi ragazzi e a tanti genitori ha donato la gioia di poter ritrovare quel figlio che si era perduto. Abbiamo avuto la comunità di recupero fino al 2010, l’anno in cui ci siamo trasferiti ad Assisi, dove abbiamo aperto una casa famiglia per ragazze madri e i loro bambini, per donne che subiscono violenza o che escono dal carcere coi loro bimbi. Concludendo, Giovanna ed io vogliamo ringraziare i tanti amici incontrati al Michele Rua e in Barriera, i sacerdoti e le suore che hanno camminato con noi, quelli che ci hanno aiutato in vari modi e ci sono sempre stati vicini. Senza di loro non ce l’avremmo fatta; ma il nostro grazie più appassionato va alla Divina Provvidenza, perché lei è stata l’artefice, la protagonista è la più cara compagna di viaggio in tutto questo nostro cammino coi poveri. E il nostro grazie va anche alla Madonna, perché alla chiesetta di legno tutto iniziò con un’Ave Maria detta insieme a Massimo, soprannominato Nerone, un ragazzo allo sbando, che poi morì di AIDS. Un ragazzo che portava nel cuore tanta nostalgia di cielo… un ragazzo che, come tanti altri è avvolto per sempre nella misericordia di Dio.