storia 7, 20 febbraio 2022
by Gianluca Teraschi
Settembre 1982, mi pare, ma poco importa il momento esatto.
Avevo compiuto da poco sette anni quando ho fatto il mio primo ingresso in oratorio. Non conoscevo nessuno, e sicuramente non ero un asso nel farmi amici, ma non ero da solo. Quando arrivai in cortile, mi accolse subito il volto bonario di don Viriglio. Mi avrebbe tenuto d’occhio lui in quei primi giorni in cui non conoscevo l’ambiente. Per qualche tempo si mise a giocare con me a nascondino: lui che sicuramente
avrà avuto mille altre cose da fare, “perdeva tempo con me”. Lui contava, ed io mi nascondevo dietro le colonne (grassoccio com’ero, la sagoma della maglietta sbucava dalla linea del pilastro, ma don Virgilio faceva finta di non vedermi). Da allora, tutte le volte che arrivavo,… anzi, tutte le volte che ognuno di noi arrivava, il saluto di don Virgilio era sempre lo stesso: la mano rivolta verso di te, e l’invito forte “salutino!” che voleva dire di stringere con il tuo il suo dito mignolo.
C’era però qualcosa che mi incuteva un certo timore, e di nuovo mi nascondevo dietro la colonna, sicuro (!) di non essere visto. Era il richiamo burbero e severo di un salesiano verso alcuni ragazzotti di poco più grandi di me, ma già ampiamente “sgamati”. Avevo timore di quel salesiano, già anziano, vestito di nero, con le scarpe rovinate, e direi anche bucate, un po’ curvo e dal passo lento. Ci è voluto un po’ perché capissi che in realtà era buono come il pane. Don Martano era già un’icona del Michele Rua quando io arrivai, instancabile, sempre disponibile a dare il pallone, la racchetta, la pallina da calcetto… con i suoi ritmi di ottantenne, che a noi stavano alle volte un po’ stretti.
Nella sala giochi che oggi porta il suo nome, si accedeva scendendo due scalini, e subito vedevi i tavoli da lavoro, dove riparava racchette, stecche da biliardo, omini dei calcetti… antesignano di quella cultura del riciclo che oggi rischia di essere solo moda, ma che per lui era la cultura del non sprecare.
E quanto si arrabbiava se facevi ruotare i calciatori dei calcetti, o se facevi cadere una pallina da biliardo… quanto si arrabbiava se parlavi durante la preghiera… ma era lo stesso salesiano che tutti i giorni organizzava la partitella di calcio con le magliette (le stesse, tutti i giorni, tutte le settimane, che lavava nelle lavatrici in fondo alla sala giochi), l’uomo che aveva cura del passerotto che un bambino gli aveva portato, e che posava in un calzettone rotto sistemato a mo’ di nido o che ti raccontava di quando, insegnante, durante gli esami faceva sistemare il commissario di fronte alla finestra, così che infastidito dalla luce e dal sole, non potesse vedere i suggerimenti che i docenti davano agli studenti!
Così mi sono affezionato all’oratorio, ma mi sono fermato per merito (o “colpa”?) di Sr. Marisa… sr. Marisona. Con lei ho condiviso la fatica della mia prima gita in montagna, che don Piero Busso descrisse come una “tranquilla camminata di due ore” ma che per chi come me sbagliò sentiero, si è trasformata in una via crucis di cinque ore.
Inizio ottobre 1989. Suor Marisa è sulla terrazza dell’Oratorio Michele Rua, io in cortile. L’ho vista, ho chinato lo sguardo, perchè sapevo che mi avrebbe chiesto di partecipare al gruppo del biennio, e io non ne avevo voglia; “mica ci vado io”, ho detto ad un mio amico lì vicino. E puntualmente, dall’alto della terrazza, è arrivato il suo richiamo “Gianluca, ci sei al biennio vero?”… e io come potevo dirle di no. Ma senza quell’invito, quel giorno, in quel momento, forse non mi sarei fermato.
Tutto per quel momento di attenzione per me.
Tutto per quei momenti che ho vissuto. Ce ne sarebbero molti altri, che riguardano anche molti laici. E tutti hanno in comune un aspetto: mi hanno donato il loro tempo, e mi hanno fatto sentire a casa.